La Birmania che ho visto

La Birmania che ho visto

La Birmania che ho visto 2000 1333 Sonia Sgarella

Era il 2009 quando da Sop Ruak, in Thailandia, guardavo al confine con la Birmania e provavo ad immaginarla, ma non ci riuscivo…

Mi trovavo nel cuore del cosiddetto Triangolo d’Oro, storico protagonista nella produzione mondiale di oppio e teatro del commercio estremamente remunerativo di stupefacenti. Oggi, luogo assediato dai turisti. Si tratta della tripla frontiera tra Thailandia, Birmania e Laos. In quest’ultimo c’ero appena stata e avevo fatto la conoscenza di una pace inaspettata. Il Laos, terra di monaci e monasteri, di grandi fiumi e di montagne, di villaggi rurali e di vita agricola. Lo vedevo li, oltre il fiume Mekong e lo salutavo dandogli appuntamento a chissà quando ma nella sincera convinzione che un quando, in futuro, ci sarebbe certamente stato. E poi di nuovo, mi voltavo verso la Birmania ma niente, continuavo a non immaginarla…

Vedevo solo alberi, una foresta rigogliosa ed interminabile. Non avevo mai letto niente a riguardo, potevo solo fare riferimento alle notizie di guerriglia armata contro il regime militare che ogni tanto mi giungevano all’orecchio; potevo solo pensare ai ragazzini birmani che, sulle spiagge della Thailandia, si offrivano di farti mille commissioni pur di raccimolare qualche Bath. Lo credevo un paese impenetrabile, forse pericoloso; a dir la verità, non ci avevo mai pensato. Certo non mi sarei mai aspettata, a soli quattro anni di distanza, di camminare per le sue strade e di percorrerne i sentieri nè mai avrei creduto di incontrare la Birmania che oggi ricordo con tanta ammirazione.

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Un paese che ha sofferto le ingiurie di una dittatura militare tra le più longeve e brutali al mondo. Un esercito di oltre 400 mila soldati “burattini” nelle mani di generali “burattinai” che ripetutamente hanno ordinato l’arresto e l’uccisione di centinai di cittadini birmani, monaci e laici, i quali hanno rischiato la vita per il diritto di decidere il proprio destino. Un paese che sicuramente soffre ancora perché vittima degli intrighi politici di un governo che si dice in via di democratizzazione ma che in verità, e sono in molti a sostenerlo, continua a tramare alle spalle del suo stesso popolo. Un paese che tuttavia soffre con un gran sorriso perché in fondo sa che la verità e l’amore trionferanno, così come è stato sempre nel corso di tutta la storia.

“Arriverà il giorno in cui tiranni e assassini, che per un certo periodo sono apparsi invincibili, cadranno” – disse il Mahatma Gandhi e sulla scia di questo pensiero la Birmania che io ho visto non dispera. Ho incontrato un paese gioioso, gente vitale, genuina, che speranzosa convive con la sua passata disperazione: due concetti ben diversi.

Chi viaggia per le strade del Myanmar, ne percorre i suoi sentieri, non incontra né miseria né degrado ma gente dignitosa che lavora per ricostruire il proprio futuro perché sa che non esiste alcun destino imposto ma solo quello che noi stessi ci guadagniamo con le azioni. Gente che canta, gente che si contorce dalle risate guardando cabaret e soap opera in tv, gente che è fiera del proprio paese e di quella “Signora” che ha fatto tanto per il suo popolo, guidando una delle rivoluzioni non violente più ammirevoli dei tempi moderni.

Aung San Suu Kyi, colei che impersona i quattro ingredienti fondamentali – secondo il buddhismo – per il successo e la vittoria: chanda, “desiderio o volontà”, citta, “l’attegiamento giusto”, viryia, “la perseveranza” e panna, “la saggezza”. Certo non è tutto lusso e magnificenza quello che si vede ma chi l’ha detto che ci sia bisogno di questo per  poter vivere serenamente? In Myanmar è un concetto molto più semplice che incomincia con il rispetto dei diritti umani…

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